Diamo uno sguardo al titolo, ed agli elementi che contiene: come spesso avviene si tratta in sostanza della nostra traccia guida. Inizia con “Oltre la meditazione formale”. Allora dunque occorre accennare a cosa si intenda con meditazione formale, per poi passare a quell’oltre, e poi alla seconda parte del titolo.

Con Meditazione Formale si intende la Meditazione Seduta, in silenzio.

Chiedendo perdono per la sintesi estrema che sto per fare, tralasciando aspetti davvero importanti ma che non possono essere richiamati qui, vado a ricordare cosa significa Meditare (per approfondimenti guarda QUI, e articoli successivi)

Meditazione

E’ una pratica che non può essere insegnata, ma solo trasmessa e praticata (al limite, molto proficuamente, insieme), apparentemente con lo scopo di “calmare la mente”. Perché dico apparentemente: intanto perché così “è venduta”, con notevole ritorno di marketing, e poi perché apparentemente il meditante è in uno stato di quiete.

Carlos Fiel (e tante tradizioni anche distanti dalla sua) infatti sintetizza meditare con sedersi-respirare-aspettare, perciò se guardiamo un meditante con il senso della vista lo vediamo in quiete.

Questo però non significa che la mente sarà automaticamente sgombra da pensieri, tutt’altro. Meditare significa “sederci con quello che siamo in quel momento” e guardarlo, non sfuggirlo (un po’ il contrario di distrarsi per non pensare): e quindi qualsiasi sentimento o attitudine abbia, chiunque sia io in quel momento, “mi porto dietro” intera nella meditazione. Ecco perché è un’attività che può essere anche dura, a volte non piacevole, perché ci pone frontali con la nostra realtà, e per di più a cuore aperto.

Sedersi (in maniera stabile) per fermare il corpo, osservando quello che accade, trasformandoci in spettatori di noi stessi: per passare dal corpo stabile alla mente osserviamo (almeno in un primo momento) il respiro, che ci tiene nel presente, agganciati da un lato al corpo fisico (è quello che compie l’atto di aumentare il volume polmonare, promuovendo la procedura respiratoria) e proiettandoci come un ponte verso la mente (il respiro vi ricordo è il vero ponte corpo-mente).

Finché la mente riesce ad osservare il respiro, essa sarà libera da pensieri, ma questo stato, se non allenato, è uno stato totalmente transitorio, quasi impercettibile per la sua non-durata (non con lo scopo di togliere l’impegno, ma per dare un riferimento, Gurdjieff dice : “Se incontri una persona capace di osservare ininterrottamente il proprio respiro per 1 minuto, stai vicino a lei; per 2 minuti, seguila; per 3 minuti, non separarti da lei per tutta la vita.”)

Perdendo la focalizzazione sul respiro la nostra mente sarà occupata da pensieri: in quel momento si aprono due strade davanti a noi.

Lasciar fare alla mente ciò per cui è stata progettata, ossia pensare, e quindi aggrapparsi a quel “pensiero-pensandolo”, oppure possiamo operare un movimento laterale (un po’ come il “pensiero laterale”), lasciando scivolare via quella nuvola apparsa nello schermo della mente, osservando che è arrivata, prendendone coscienza (questo è il passaggio risolutore, ed il vero allenamento della presa di consapevolezza) e lasciandola andare.

Si tratta quindi di passare da un pensare-i-pensieri, alla contemplazione dei pensieri, e tramite la contemplazione possono essere lasciati andare in quanto non c’è implicazione ma distacco.

Tutto ciò non vuole demonizzare i pensieri, bensì valorizzarli nella loro funzione, togliendo però quella predominanza di voce (quel brusio del commentatore interno) sempre in azione, che può finire quindi per sovrastare ogni altro livello, portando addirittura a farci identificare con i nostri pensieri.

Concludo questa parte introduttiva con l’aspettare: aspettare niente, stare per il gusto di stare, con fiducia che accada (o non accada) ciò che deve accadere (o non accadere): la fiducia è necessaria per iniziare, ma viene poi instaurato un circolo virtuoso perché è proprio la fiducia ad essere allenata nell’attesa. Un’attesa non-finalizzata, senza scopo e senza attaccamento al risultato, ma con fervore (tapas) nella sua pratica.

Meditazione formale e meditazioni non formali

Bene, abbiamo detto che viene definita (in alcune tradizioni) “formale”: perché? Perché è un’attività scandita da un inizio e da una fine. Pertanto ha una forma, un perimetro, dei limiti.

Con meditazioni informali si intendono invece le pratiche di attenzione meditativa integrate nell’attività quotidiana.

Alcuni di voi ne avranno sicuramente già sentito parlare: se il cuore della meditazione è in sostanza un allenamento per “restare presenti nel presente”, potete ben capire che anche lavare una tazza può essere una pratica meditativa.

Prendersi tempo per osservare prima con gli occhi la tazza, colori, texture, forma, messaggi verbali/figurati, poi toccarla per sentirne la forma, temperatura, grana, pesantezza, quindi passare ad accendere l’acqua (di nuovo temperatura ecc.): in sostanza procedere all’atto che quotidianamente facciamo ma con un’attenzione al momento che di solito non diamo in quanto azione ripetuta e ormai nota.

I Maestri (ad esempio Thich Nath Hanh, Pratiche di consapevolezza, Terra Nuova ed.) ci guidano in infinite attività che possono trasformarsi in atti di presenza: ogni momento della nostra giornata può essere una “campana della consapevolezza”, un richiamo a vivere il momento presente nella sua totalità e pienezza, affinché lo Yoga e la Meditazione dilaghino appunto fuori dai momenti formali, non si rinchiudano in castelli sterili ed autocelebrativi, ma si diffondano nel quotidiano. E’ soltanto così che può essere creato il cambiamento.

Ricordo a tal proposito un sutra fondamentali di Patanjali III.52: “Facendo samyama (unione di dharana, dhyana e samadhi, potremmo dire la totalità di ciò che è e produce la meditazione) di istante presente in istante presente, lo Yogi raggiunge la conoscenza superiore e sacra, libera da ogni limitazione di tempo e spazio”.

Il presente è una transizione, mantenendo la consapevolezza sul presente, ne posso capire l’essenza profonda, posso percepire che tutta l’esistenza è composta di attimi impermanenti e dunque posso relativizzare tutta l’esperienza….e creare appunto le condizioni per il cambiamento.

Meditazione camminata

Torniamo al titolo: abbiamo visto cosa significa meditazione formale, abbiamo accennato dove ci porta quell’oltre (pratiche informali), giungiamo dunque alla Meditazione Camminata.

Mi preme prima una precisazione: alcune tradizioni includono la meditazione camminata nelle meditazioni formali, perchè PUO’ essere praticata con un inizio ed una fine.

Personalmente scelgo invece la tradizione che lascia la ‘meditazione seduta in silenzio’ su una sorta di “trono” come unica meditazione formale, e la distingue da tutte le altre pratiche meditative: è vero che la meditazione camminata può avere un inizio ed una fine, ma per il fatto che può essere praticata in ogni momento senza bisogno di alcuna aggiunta a quello che già faccio, mi piace lasciarla tra le pratiche informali. Questa non è una diminuzione, al contrario piuttosto vuole ricordarci che non ho bisogno di tempo aggiuntivo per praticarla, mi basta semplicemente vivere in maniera consapevole qualcosa che già quotidianamente faccio.

Quando camminiamo entriamo in contatto con la Terra, ciò che sostiene noi stessi e tutte le forme di vita intorno a noi: ciò che in realtà permette l’esistenza di ogni forma di vita. Nella teoria dei 5 elementi, l’elemento Terra è quello che oltre a stabilità e centratura, richiama anche l’accoglienza ed il contenimento. La terra appunto tiene e sostiene tutto, è il campo di gioco perfetto per tutti gli altri elementi: accoglie il bello ma anche il brutto, almeno entro certi limiti prende gli scarti e li trasforma in nuova vita, senza giudizio, semplicemente seguendo il suo Dharma, ciò per cui è stata creata. Dà diritto di essere, e come ogni diritto richiama anche la responsabilità correlata, responsabilità appunto delle proprie azioni di Essere.

Con questo entriamo in contatto quando camminiamo: e noi camminiamo di continuo, ma in che modo?

Solitamente camminiamo con lo scopo di spostarci da una parte all’altra, se ci riflettiamo un momento in realtà camminiamo (anche pochi passi, dalla scrivania alla fotocopiatrice) incessantemente tutto il giorno…..ma più che un camminare è un correre, è un camminare “perché ci serve”, ci tocca farlo. In questo modo però “stampiamo ansia e dispiacere sulla terra” (Thich Nath Hanh, Camminare in consapevolezza, Terra Nuova ed.): abbiamo invece la possibilità di baciare la terra ad ogni passo, imprimendovi sopra pace e serenità.

Proviamo un momento a chiederci: se cammino solo per andare da qui a lì, nel frattempo, dove sono io? Sono un sonnambulo che mentre cammina pianifica, organizza e vive nella scissione: il corpo è qui, nel percorso, la mente è già arrivata.

Se invece fossimo capaci di realizzare anche un solo passo nella presenza, la corsa cesserebbe: la mente si riavvicinerebbe al corpo (e forse al respiro), ricreando -almeno per un momento- l’Unità.

E, strabiliante, tutta la tecnologia che ci serve risiede semplicemente nell’osservarmi mentre cammino: tutta l’attenzione giù alla pianta dei piedi, al contatto progressivo (e poi al distacco progressivo) del piede col terreno, proprio come se i miei piedi stessero baciando la terra. Attenzione al respiro, che con i passi si va forse a connettere, attenzione al corpo che si adegua continuamente allo spostamento.

Ogni passo in consapevolezza è una rivoluzione contro la fretta e l’iperattività di mente e corpo: è portatore di pace non solo in chi lo esegue, ma anche in chi osserva (provate a guardare un camminatore agitato, ed un camminatore in meditazione…..).

Thich Nath Hanh inoltre ci dice che esistendo purtroppo tanti esseri umani non più in grado di camminare stabilmente, per loro dobbiamo camminare: e loro camminano con noi. Portiamo con noi un antenato non più vivo, o un conoscente non più in grado di camminare autonomamente: o addirittura nelle pratiche molto allargate chi non è più in grado di camminare sceglie un camminatore e lo osserva attentamente: il primo camminerà (e porterà la pratica) per l’altro. Questo perché, sostiene Thich Nath Hanh e personalmente approvo, “la felicità non è una questione individuale”, bensì un fatto collettivo.

Camminare, ma come?

Senza aggiungere altro, perciò in silenzio (Thich Nath Hanh promuove le meditazioni camminate in gruppo, in quanto l’energia di consapevolezza collettiva che si genera è molto potente: ma dove la condivisione riguardi il camminare, non la parola. Se ti occorre parlare con il tuo vicino fermati, parla, e poi riprendi), e operando sui pensieri quella contemplazione che ne permette lo scivolare via a cui accennavamo prima.

Quando cammino non parlo, non penso.

E mi do tempo, nella lentezza, per rompere la corsa affrettata ed entrare nella consapevolezza: questo almeno nelle pratiche più prossime all’esercizio, quelle che dicevamo hanno un inizio ed una fine.

Camminare lentamente non è per niente facile, per alcuni, troppo abituati a correre, può diventare esasperante e durissimo, ma è necessario come allenamento alla rottura della perenne corsa.

L’Autore invita però a portare la consapevolezza del camminare anche nei nostri tragitti quotidiani (nell’informalità della pratica, quindi) e trovo molto suggestivo che in questi casi inviti il praticante a prendere un passo che non sia di corsa, ma che non risulti imbarazzante per chi osserva. “Il modo migliore di praticare ha l’aspetto della non-pratica ma è molto profondo”: è una sorta di pratica invisibile, che dona felicità e serenità a chi la sta vivendo, senza dare spettacolo né mettere a disagio gli altri, camminando adagio ma non al punto da attirare l’attenzione.

In questo modo camminare diventa al tempo stesso la pratica ed il frutto della pratica, facendoci sentire a casa ed in pace ad ogni passo.

 

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